Come l’elettronica abilita i robot umanoidi

Alessandra Sciutti con il robot umanoide iCub

Intervista ad Alessandra Sciutti, neuroingegnera dell’Istituto Italiano di Tecnologia.



 ”La nostra ambizione è quella di comprendere come funziona la cognizione umana, ossia come noi esseri umani siamo così bravi a comprendere il mondo, a interagire con gli altri e idealmente riuscire a trasferire parte di queste competenze sulle macchine. Nel mio gruppo lavoriamo soprattutto con i robot e più in generale sulla tecnologia: in questo momento siamo un gruppo di circa 30 persone, con competenze molto diversificate che vanno dall'informatica e l'ingegneria fino alla filosofia e alla psicologia”.

A parlare è Alessandra Sciutti, neuroingegnera e ricercatrice alla guida dell’Unità Contact dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) a Genova, che si occupa di architetture cognitive per tecnologie collaborative. Le attività che svolge e il suo percorso di studio e ricerca, come ci racconta nell’intervista, condividono molto con il settore dell’elettronica. Ecco, quindi, qualche curiosità raccontata da lei in prima persona per capire meglio quali possono essere le prospettive per chi studia in questo ambito.

L’obiettivo che si pone il suo gruppo di ricerca è duplice: studiare l'uomo e, grazie alle conoscenze acquisite, migliorare i robot. Un tipo di attività che richiede un approccio intrinsecamente multidisciplinare, tanto che individuare una giornata tipo per lei e il suo gruppo è una sfida non da poco. Sicuramente - dice Alessandra - un elemento molto importante è la misura sperimentale, che prevede spesso la messa a confronto di una o più persone con un robot. “Abbiamo una sorta di predilezione per iCub, un piccolo robot di forma simile a quella di un bambino che è in grado di muoversi e di percepire in maniera molto simile a quella di un essere umano. Oltre a ciò, utilizziamo molti altri sensori per studiare il corpo umano, come quelli che misurano, per esempio, il movimento con molta accuratezza».

Sensori definiti di “motion capture”, quindi, che sono in grado di misurare come il movimento si evolve nel tempo con estrema precisione, oppure sensori che mirano a misurare il movimento oculare, o ancora sensori che sono in grado di misurare alcuni parametri come il cambio di sudorazione, lo stato fisiologico e il battito cardiaco. Spesso, poi, è necessario progettare nuove tecnologie e sensori  in grado di misurare aspetti che quelli attuali non sono in grado di rivelare. Per questo, una parte di sviluppo, anche a livello di hardware, è piuttosto importante.  Un’altra attività comune è lo sviluppo di nuovi algoritmi di intelligenza artificiale per consentire ai robot di apprendere dalle proprie esperienze e di adattarsi ai cambiamenti. A questi si associano tutte le metodologie della psicologia sociale e della psicologia sperimentale, perché per misurare in maniera completa l'interazione è necessario approfondire  sia gli aspetti di intelligenza del robot, dal'intelligenza artificiale ai sensori, sia come queste macchine vengono percepite dalle persone che ci interagiscono.

 

Quanto sono importanti le conoscenze e le competenze di elettronica nei progetti di ricerca che svolgi?

“L’elettronica è fondamentale per i nostri progetti. Il robot iCub, innanzitutto, è nato da un progetto europeo molto grande RobotCub  fortemente multidisciplinare che ha coinvolto psicologi dello sviluppo, neuroscienziati e ingegneri. Gli scienziati si sono chiesti: come è possibile costruire un robot che possa ‘imparare ad imparare’, come fa un bimbo nei primi anni di vita?  Quali capacità dovrà avere? E come costruire questo hardware da zero? La sfida prevedeva un problema di meccanica, certo, ma anche un grosso problema di elettronica: decidere quali sensori utilizzare, ad esempio, e come fare in modo che i diversi segnali venissero comunicati tra le diverse parti di questo corpo robotico. 

ICub adesso ha delle mani che sono molto simili a quelle di un bambino, ha due occhi che può muovere: costruire le schede necessarie per far funzionare questo sistema è stato un passo molto importante e ha portato avanzamenti anche in ambito meccatronico ed elettronico. Un esempio? È stata sviluppata la pelle del robot: sono dei sensori tattili che gli permettono di percepire dove noi premiamo e con quanta forza”.

Oltre ad iCub ci sono altri progetti cui Alessandra è particolarmente legata. Uno di questi, WHISPER (acronimo di Investigating Human Shared Perception With Robots), mira a creare una percezione condivisa e una comprensione mutua tra uomini e robot: parte dall'idea che quando noi costruiamo una macchina, come un robot, l'ambizione è di crearla il più accurata possibile. “Noi esseri umani invece non siamo accurati, non scattiamo fotografie del mondo, ma il nostro cervello utilizza le informazioni che arrivano dai suoi sensi e poi le elabora utilizzando la nostra esperienza passata, il nostro stato emotivo e colora la nostra esperienza. Questo significa che molto spesso noi e robot vediamo le stesse cose in maniera molto diversa”.

Prendiamo il passaggio di un oggetto da un robot ad una persona: quando noi lo osserviamo prevediamo subito lo scopo dell’azione (a chi l’oggetto deve arrivare) e spesso anche se la persona che sta passando l’oggetto è gentile o aggressiva o se è di fretta o arrabbiata. Una macchina invece percepisce solo un movimento. Quello che la ricerca di Alessandra sta sviluppando è la capacità del robot di essere sensibile alle informazioni che, come umani, riceviamo; quindi, a percepire il movimento, lo spazio, il tempo in modo più simile a come lo facciamo noi, utilizzando proprio dei modelli che derivano dalla percezione umana. 

E questo che impatto ha? “Nel concreto porterà ad avere robot più bravi a coordinarsi con noi, quindi senza bisogno di comandi verbali il robot sarà in grado di comprendere le nostre azioni e ad esempio adattare la sua velocità. Un robot consapevole del fatto che noi a volte sbagliamo, che abbiamo delle percezioni diverse, sarà lui stesso in grado di prevederlo ed aiutarci e questo ha delle applicazioni, per esempio, in contesti di collaborazione industriale”.

 

Veniamo al tuo percorso di formazione. Se parliamo di entrare nel mondo ingegneristico, in particolare: cosa ti attirava e cosa ti spaventava? 

Io non ho mai avuto le idee chiare, non avevo delle nette predilezioni di questo tipo, quindi, non ho seguito un percorso lineare. Dopo il liceo classico avevo due idee apparentemente opposte, perché mi interessava greco antico ma anche gli aspetti più ingegneristici. La decisione su cosa fare è scaturita da una riflessione condivisa con i miei genitori e altre persone care in merito a quali potevano essere le ricadute a livello professionale: l’ingegneria dava più garanzie”.

Non un'ingegneria qualsiasi, però, il suo interesse era bioingegneria, in realtà, una facoltà che a Genova è emersa come una specializzazione di elettronica. “Mi affascinava tantissimo l'idea di studiare il cervello e il suo funzionamento, mi emozionava. Certo, ero un po’ preoccupata, venivo da un liceo classico, anche se con una professoressa di matematica fantastica. A posteriori devo dire che per quanto sia stato impegnativo, è stato assolutamente fattibile. 

Durante il corso di laurea, già verso la fine del terzo anno, ho incontrato quello che poi è diventato il mio mentore. Mi ricordo ancora questa lezione in cui disse che ci sono molti modi per studiare il cervello, ad esempio attraverso i metodi della medicina, biologia, psicologia e filosofia, ma l’ingegneria forniva la possibilità unica di imparare costruendo, provando a riprodurre alcuni dei modelli di funzionamento del cervello elaborati da queste altre discipline. Da lì mi sono appassionata alla robotica umanoide e ho iniziato il percorso che mi ha portata fino a qui, attraverso la laurea magistrale, il dottorato e gli anni di ricerca”.

 

Ingegneria: è quindi una laurea per ragazze?

“Bioingegneria, storicamente, è il corso più frequentato da ragazze in questo ambito. Anche nel mio corso eravamo circa metà e metà, ma ho visto che nelle annate successive c'è stata sempre più una predominanza femminile. Forse il fatto che ha un legame forte con possibili soluzioni per il benessere delle persone  rappresenta un’attrattiva, un obiettivo importante che attira le ragazze, come più in generale nel settore delle scienze della vita”.

 

Quanto appoggiavano questa tua scelta di studio e di carriera le persone che erano intorno a te?

“Da questo punto di vista io sono stata incredibilmente fortunata e ho una famiglia che mi ha supportata; mio padre è stato professore, mia madre medico per cui sapevano com'è la vita di chi fa ricerca, quindi quando tornavo a casa e raccontavo del percorso universitario, i fallimenti degli esperimenti e le mie sfide quotidiane, avevo persone che capivano che cosa stessi dicendo. Questo è stato un fattore importante. Sono sempre stata molto supportata, anche i miei amici hanno sempre ritenuto questo percorso assolutamente ragionevole; forse è da quando mi sono spostata più sulla robotica che, quando mi confronto con persone esterne, si stupiscono di più. Ecco, secondo me se mi presentassi solo come bioingegnera, sarebbe qualcosa di ormai abbastanza assodato, ma per la robotica non è ancora così”.

Un discorso già affrontato, che riguarda l’influenza degli stereotipi di genere sulla carriera, sia di studio che lavorativa; stereotipi che danno origine a fenomeni spesso non così facilmente riconoscibili ma che possono avere un ruolo decisivo nella possibilità di auto-affermazione.

“A livello lavorativo, paradossalmente, mi hanno dato più visibilità, proprio perché come donne siamo un numero piuttosto ridotto in questo ambito. E visto che è veramente cruciale riuscire a far vedere che invece ci siamo e che produciamo risultati e conoscenze importanti, da un punto di vista di comunicazione al grande pubblico, più che disseminazione scientifica, il fatto di essere una donna ha fatto sì che io venissi spesso coinvolta. Talvolta questo ha implicato un maggiore carico di lavoro, ma spero possa avere un effetto positivo”.

 

Queste parole ci ricordano che sono necessarie azioni a monte, per incentivare l'avvicinamento delle ragazze alle STEM: quali sono delle azioni concrete che si potrebbero fare in questo campo? 

“Normalizzare, partiamo da qui. È assolutamente normale che una persona, indipendentemente dal proprio genere, si appassioni ad un ambito come quello ingegneristico. E siccome di donne ce ne sono già, penso che la comunicazione dovrebbe dare loro visibilità in maniera ampia, facendo vedere che è a tutti gli effetti una cosa normale. Non solo con le figure più eclatanti, ma anche con tutte quelle persone che nel quotidiano svolgono il proprio lavoro in questo campo: la nostra vicina di casa, magari, è una donna che si occupa di STEM”.

Un’altra cosa molto importante, fin da bambini, è cercare di minare gli stereotipi. A partire dai giocattoli, eliminando le classificazioni in base al genere e demolendo i confini che abbiamo costruito noi, perché un bimbo che lasciamo libero di scegliere indipendentemente dal suo genere. Giocherà con tutti questi giochi e quindi potrà sviluppare quali quelle che sono le sue vere esigenze e le sue vere passioni. E poi, è importante mettersi in gioco, toccare con mano e capire cosa vuol dire fare STEM e cercare di costruire un immaginario in cui ragazzi e ragazze si possano immedesimare alla pari: sfruttare i festival scientifici e le università che aprono le proprie porte sui laboratori è molto importante in questo senso

 

Consiglieresti alle giovani ragazze che si stanno orientando a un percorso universitario di iscriversi a ingegneria elettronica e per quali motivi? 

“Ci sono molti motivi e mi soffermerò su alcuni di quelli più importanti. Studiare in questo ambito è a tutti gli effetti un modo per iniziare a mettere in pratica, poter toccare con mano e vedere l'impatto di quello che si è studiato in fisica. Si ha la possibilità di costruire e di vedere perché tutti quei principi sono così importanti, a che cosa servono davvero”, dice Alessandra.

E continua con una riflessione molto importante: “Seguire questa strada permette poi di progettare e creare nuovi strumenti, come quelli biomedicali che potrebbero essere la risposta a problemi sanitari che non abbiamo ancora risolto, oppure realizzare un nuovo robot. Queste sfide richiedono quel tipo di capacità senza le quali la costruzione di questi nuovi dispositivi non sarebbe possibile. L'informatica, ad esempio, attrae molto, perché in questo campo ci sono stati degli avanzamenti incredibili, ma sono stati gli avanzamenti a livello dell’elettronica che c'è dietro che li hanno resi possibili. I nostri robot hanno sì una parte di intelligenza artificiale, ma ciò non sarebbe possibile senza l’elettronica: senza un hardware adeguato e senza i sensori appropriati non avrebbero quelle capacità.. Quindi, se l'interesse è creare nuovi anche sistemi molto complessi e dare una nuova spinta anche all'intelligenza artificiale, l’ingegneria elettronica può essere la strada per farlo”.

C’è un altro aspetto fondamentale, che ha a che fare con una molteplicità di visioni, cruciali per promuovere una ricerca d’impatto. Ed è proprio in un ambito come la robotica che questo aspetto assume grande importanza.

«Per un certo periodo si è pensato di poter risolvere i problemi costruendo un robot, mettendolo in un posto e togliendo tutti gli umani. Questa è la soluzione adottata ad esempio nelle fabbriche automobilistiche, dove i robot lavorano in uno spazio confinato, separato dagli operai umani. Ci si è resi conto però che questo limita molto le applicazioni e che la vera innovazione e la vera creatività vengono fuori quando il robot aiuta l'uomo o è inserito in un ambiente popolato di esseri umani con cui deve interfacciarsi. Il problema è diventato molto più difficile e di fronte a problemi complessi è necessario avere tante prospettive. E qui la diversità: genere background, cultura, nazionalità e vissuto personale. Una ragazza che sceglie di affrontare il percorso STEM oggi compie una scelta che inizialmente è più difficile, ma porta in questo ambito una ricchezza che per noi è fondamentale. Soprattutto in un contesto come quello della robotica cognitiva, ma lo è anche in tutti gli altri ambiti dove si affrontano problemi complessi».

E poi diciamolo, c’è anche un motivo edonistico: è divertente. “Il mio consiglio è che se ti piace, se ti attira, vale la pena lanciare il cuore oltre l'ostacolo e provare: per una che l'ha fatto, io posso dire che è molto divertente. Sono molto contenta della mia scelta. È giusto sapere che può essere difficile, che può richiedere fatica e impegno. Però poi ripaga: vado al lavoro con il sorriso!”.

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