Tessuti intelligenti realizzati grazie all’elettronica

tessuti intelligenti realizzati con l'elettronica

Intervista a Luisa Petti e Martina Costa Angeli.

 

Cosa mai potrà capirne, un tessuto, di come stiamo e in quale stato si trova la nostra salute? No, non scomodiamo l’empatia, in questo caso, ma l’elettronica

Ci troviamo all’Università di Bolzano, dove lavora un gruppo di ricerca che si occupa proprio di studiare sensori per la rilevazione di parametri fisiologici attraverso l’applicazione di principi di elettronica. La squadra che ha sviluppato questo tipo di tecnologia all’interno del progetto STEX è multidisciplinare e conta diverse figure con esperienze e competenze complementari. 

Abbiamo chiesto quindi a Luisa Petti, Professoressa Associata, e alla Dott.ssa Martina Costa Angeli, ricercatrice, entrambe attive presso la facoltà di Ingegneria, di raccontarci qualcosa di più, non solo sul progetto ma anche sul percorso di studi e di carriera che le ha portate ad occuparsi di questa tematica. In particolare, come hanno deciso di approcciarsi all'elettronica e che tipo di passi hanno compiuto nel loro percorso personale.

«Sono approdata all’ingegneria elettronica, con triennale e specialistica, dopo un liceo scientifico: volevo fare qualcosa di applicato, perché mi piacevano molto la fisica e la matematica ma volevo studiare un po’ di più la parte applicata della fisica», dice Luisa. «Quando esci da un liceo scientifico hai poca consapevolezza di quello che si fa in maniera specifica in un'ingegneria rispetto ad un'altra, rispetto alle “scienze dure”  (come la fisica, la chimica, la biologia o la matematica) che si studiano al liceo . Guardando un po’ i piani di studi avevo visto che in ingegneria elettronica c'era tanta fisica e matematica, anche se non sapevo in dettaglio cosa fosse l'elettronica, finché non l'ho poi studiata».

All'ultimo anno di specialistica Luisa passa un anno all’ETH di Zurigo, grazie ad un accordo bilaterale simile all’Erasmus. E mentre a Milano era molto focalizzata sui circuiti e sistemi elettronici, a Zurigo ha conosciuto in maniera più approfondita quella parte dell'elettronica più vicina alla scienza dei materiali: qui ha avuto l’opportunità di fare corsi sulla micro-fabbricazione, su come lavorare in camera bianca e utilizzare nuovi materiali per realizzare dispositivi innovativi. L’interesse è tale che decide di restare a Zurigo per fare un dottorato di ricerca in elettronica flessibile, lavorando con dispositivi e transistor a film sottile; quindi, con tecnologie non convenzionali di elettronica per realizzare sia transistor che circuiti flessibili che si piegano e allungano, che si adattano al corpo umano per vari tipi di applicazioni.
Seguono altre esperienze all’estero, come quella all'Imperial College a Londra, al dipartimento di fisica, dove Luisa ha avuto la possibilità di collaborare con fisici su materiali organici e stampabili sempre per transistor e circuiti flessibili. 

«Poi sono stata contattata da un head hunter e ho passato un periodo di quattro mesi a Cupertino in California alla Apple, nel quale ho lavorato su display elastici da utilizzare per “smart watch”. Dopo il dottorato, invece, mi sono trasferita in Inghilterra, a Cambridge, dove ho lavorato da Cambridge Display Technology, un centro di ricerca di un'azienda di chimica giapponese (Sumitomo) che utilizza polimeri organici per vari tipi di dispositivi come batterie e sensori. Dopo un ulteriore anno da Flexable, un'azienda che si occupa di commercializzazione display organici, nel 2018 ho avuto la possibilità di tornare in accademia a Bolzano, dove si era aperta una posizione da ricercatrice» aggiunge Luisa.


Il gruppo che gestisce insieme al professor Paolo Lugli, che è rettore dell'università e professore ordinario di elettronica, si focalizza sulle tecnologie per i dispositivi elettronici: si lavora in laboratori di micro e nano fabbricazione, ma anche di stampa, utilizzando sia materiali commerciali che sintetizzati da collaboratori. Si realizzano ad esempio sensori e biosensori, transistor, circuiti, attuatori e, in generale, tutto quello che le tecnologie flessibili e principalmente organiche stampate possono permettere da un punto di vista di applicazioni in ambito medicale, sportivo, agrifood e ambientale

Abbiamo fatto la stessa domanda a Martina, che ha fatto un percorso diverso ma ugualmente avvincente. Dopo il liceo classico, infatti, era indecisa se iscriversi a filosofia (laurea che non esclude di prendere in futuro) o a ingegneria: «Non sapevo esattamente cosa fosse ingegneria e mi sono iscritta a ingegneria biomedica del Politecnico di Milano, sia perché mi piace l'aspetto umano legato alla tecnologia, sia perché devo ammettere che ho pensato che fosse meno “ingegneristica” dell’ingegneria classica che siamo abituati a immaginare. Beh, mi sono ricreduta: si è ingegnere a tutti gli effetti, applicando la fisica, la matematica e l’approccio ingegneristico in ambito medicale»

La tesi magistrale, al Politecnico di Milano all’interno del corso di studi di Ingegneria Biomeccanica e Biomateriali, le ha dato l’opportunità di lavorare sulle tecnologie di fabbricazione dei dispositivi elettronici, caratterizzati dall'essere flessibili e deformabili, combinando il background meccanico con quello sviluppato in ambito di fabbricazione. Da qui il dottorato di ingegneria dei materiali, che ha permesso di sviluppare meglio le competenze nell’utilizzo di materiali innovativi per realizzare sensori di deformazione, con poi un'applicazione medicale.

«Nell’attività di ricerca che ho svolto dopo il dottorato ho lavorato nell'ambito della sensoristica concentrandomi sul design e lo sviluppo dei dispositivi. All’Università di Bolzano fabbrichiamo i sensori utilizzando sia tecniche a basso costo, come la stampa, sia tecniche standard come la litografia. Nella posizione di RTDA, che attualmente ricopro nel gruppo, ho iniziato a fare anche attività di didattica e l'anno scorso ho insegnato al corso di fondamenti di elettronica, che tratta concetti di base che tuttavia ritroviamo anche nei sistemi più complessi e che rendono l'ingegnere elettronico interdisciplinari e necessario in molti ambiti» aggiunge Martina.

 

Il progetto STEX

Il gruppo di cui fanno parte Luisa Petti e Martina Costa Angeli ha lavorato al progetto STEX, finanziato dai fondi di sviluppo regionale FESR, di cui è capofila Microgate, un'azienda molto importante a livello nazionale e internazionale che si occupa di ottiche adattive per i telescopi e per applicazioni spaziali e che ha iniziato a differenziarsi occupandosi anche di dispositivi ottici nel campo della riabilitazione. In questo progetto, l'ingegner Roberto Biasi è il referente per l’azienda Microgate, e il Prof. Lugli per l’Università di Bolzano. 

Il progetto mirava alla creazione di uno smart textile, cioè capi di vestiario che integrano sensori in grado di  fornire, in real-time, indicatori di efficienza biomeccanica e metabolica degli atleti durante l’attività sportiva. Anche l'Università di Verona ha partecipato al progetto, con la figura della Professoressa Silvia Pogliaghi, specializzata nella medicina dello sport, grazie al coinvolgimento della quale è stato possibile declinare le attività di sviluppo nell'ambito medico.

Nel progetto sono stati valutati due parametri fisiologici: la concentrazione di ammonio presente nel sudore e la frequenza respiratoria. La frequenza respiratoria è stata scelta perché è un indicatore dell'insorgenza della fatica muscolare durante l'attività fisica; la concentrazione di ammonio nel sangue, invece, è un indicatore del passaggio dall'attività aerobica ad anaerobica e questo permette di valutare quale tipo di attività viene svolta durante il training dell'atleta. Alcuni studi recenti hanno indicato una correlazione tra la concentrazione di ammonio presente nel sangue, che rappresenta il Gold Standard, e nel sudore. Il vantaggio è che quest’ultimo è un fluido che si può facilmente prelevare dall'esterno in maniera non invasiva, per questo motivo si è scelto di sviluppare un sensore per la misura dell’ammonio nel sudore. La misurazione real-time di questi due parametri,  quindi, può essere utilizzata per monitorare lo stato fisiologico dell'atleta e, se necessario, predire l’insorgenza della fatica muscolare e quindi evitare di andare incontro a danni che possono essere anche permanenti.

L'idea del progetto era quello di non utilizzare un dispositivo indossabile come lo smartwatch, ma da integrare direttamente nel tessuto. Per quanto riguarda la misura della frequenza respiratoria, il dispositivo è stato realizzato mediante sensori di deformazione resistivi: quando indossati (i sensori sono stati pensati per essere integrati su una maglietta sulla linea ascellare), con l'espansione del torace, i sensori di deformazione si allungano inducendo  una variazione di resistenza. L'obiettivo è stato realizzare un dispositivo che potesse lavorare alle frequenze del respiro che si hanno durante l'attività fisica, in particolare nel ciclismo. La realizzazione di questo sensore è stata fatta scegliendo come tecnica di fabbricazione la serigrafia (o screen printing), la stessa che viene usata per i disegni sulle magliette, ma utilizzando materiali conduttivi e sensibili alla deformazione. Inizialmente il focus è stato quello di ottimizzare il processo di fabbricazione per essere compatibile con la produzione di magliette a larga scala. Sono stati usati i tessuti di un partner del progetto, Texmarket, che ha fornito diverse magliette comunemente usate nel ciclismo: su questi si sono ottimizzate le performance del dispositivo, valutando la geometria, dimensione e posizione del sensore, ma anche la flessibilità e aderenza del tessuto. Il prototipo è stato poi testato presso Pro Motus, una palestra di riabilitazione in cui si utilizza la sensoristica con sistemi ottici e sistemi di analisi del movimento. 

«In collaborazione con il medico abbiamo impostato il primo pilot study che ha permesso di validare il dispositivo, e vedere se il sensore potesse acquisire la frequenza respiratoria sia in condizione di riposo che durante la pedalata. In questo esperimento, noi ci siamo occupati del sensore, mentre Microtec  si è occupato dell'elettronica  di interfaccia con il sensore, che deve avere determinate caratteristiche affinché il segnale venga letto senza l'aggiunta di rumore», aggiunge Martina.

Nel caso del sensore di ammonio per il sudore, lo state of art era quasi nullo. Quindi dal punto di vista della ricerca c'è stato un importante sforzo per realizzare un dispositivo che permettesse di misurare la concentrazione di ammonio nel sudore, che è più bassa rispetto a quella del sangue, in maniera affidabile, accurata e selettiva. 

In questo caso il sensore è basato su una piattaforma Field Effect Transistors (FET). Come semiconduttore è stato scelto di utilizzare i nanotubi di carbonio, che sono noti per avere un'ampia superficie e quindi una maggiore area di interazione con l'analita, in questo caso l'ammonio. I nanotubi di carbonio sono stati poi ricoperti da una membrana permeabile all’ammonio per rendere il dispositivo selettivo. Quando il sensore è esposto all'elettrolita, ovvero il sudore, l'ammonio presente al suo interno interagisce con la membrana selettiva che ricopre i nanotubi di carbonio producendo una variazione del segnale di corrente che attraversa il dispositivo. La fabbricazione in questo caso è stata fatta utilizzando la litografia su substrato flessibile, in modo tale da ottenere un dispositivo di piccole dimensioni e, allo stesso tempo, comodo da indossare. 

All'interno di questo progetto e grazie anche alla collaborazione con la Scuola Politecnica Federale di Losanna (EPFL), è stata sviluppata anche un’elettronica di lettura ad-hoc, flessibile e indossabile, adatta ad interfacciarsi col dispositivo stesso.

Quello che ancora manca in questo progetto è lo sviluppo del sistema microfluidico , con il quale sarà possibile in futuro eseguire, come nel caso del sensore di deformazione, un pilot-study su un soggetto durante attività fisica. 

 

Sostenibilità economica e ambientale

Una tendenza di grande attualità è quella di fare innovazione più sostenibile, sia dal punto di vista economico che ambientale. Il gruppo di Luisa lavora molto sulla parte di materiali e tecniche sostenibili, con basso costo e basso impatto rispetto a quello che l'elettronica tradizionale richiede. L'idea è di trovare delle applicazioni alternative dove si possa impattare meno e utilizzare processi e materiali che siano più a basso costo, più basso impatto ma anche tecniche di produzione semplici per dispositivi, soprattutto sensori e biosensori, che possano essere utilizzati in vari ambiti applicativi.

«Su questo abbiamo tanti progetti: abbiamo lavorato su una carta ricavata dagli scarti degli alimenti come kiwi, mela e uva, e con un laser abbiamo carbonizzato la superficie rendendola conducibile per poter realizzare anche dei semplici dispositivi in un'ottica di “elettronica circolare”: questi dispositivi poi, se spezzettati, possono ritornare ad essere parte del suolo, quindi non solo sono sostenibili ma proprio circolari», dice Luisa.

Un altro progetto riguarda un energy harvester, che possa essere utilizzato non solo per accumulare energia ma anche come sensore con utilizzo di materiali a base biologica, in particolare la Fibroina della seta, un polimero che si estrae dai bachi da seta. Questo dispositivo è un idrogel che permette anche il funzionamento a basse temperature, grazie alla presenza di glicerolo, e può essere usato come wearable sensor, quindi a contatto con la pelle e per il monitoraggio della pulsazione o frequenza respiratoria: non necessita di una batteria e c'è quindi il vantaggio sia di avere un materiale nature-based che di essere più semplice.

Ingegneria elettronica: una grande opportunità interdisciplinare

Come viene percepita l’ingegneria elettronica in termini di utilità e competenza?

«L'idea che l’ingegneria elettronica sia limitata a circuiti e sistemi e che il resto sia fatto da fisici, scienziati dei materiali e chimici è molto diffusa. Quello che facciamo noi tradizionalmente non è stato visto come elettronica, ma più come una fisica applicata. Ora tutti i campi limitrofi hanno assimilato quello che in realtà dovrebbe appartenere all'elettronica e settori come l'informatica, la fisica e la scienza dei materiali hanno inglobato questo spazio, cosa che secondo me influisce anche nella percezione che c’è di questo ambito. In realtà quello che è importante far capire è che l'elettronica in realtà è molto di più; ora nei ragazzi c’è molto interesse verso la parte robotica, biomeccanica e biomedicale, ma anche in queste c'è tanta elettronica» aggiunge Luisa.

Dall'anno scorso a settembre, infatti, è partito il corso in ingegneria elettronica e dei sistemi fisici che Luisa dirige, a dimostrazione dell’impegno del gruppo di ricerca anche sulla parte di didattica in cui si insegnano fondamenti sui dispositivi elettronici, circuiti, sistemi e, soprattutto, si cerca di motivare gli studenti e iscriversi a ingegneria elettronica.

«Credo anche che la multidisciplinarietà sia qualcosa che i ragazzi di oggi hanno molto più a cuore e che sia molto utile quando si pensa alle possibilità del percorso che si sta facendo, per tenersi aperte più strade, perché il mondo è interdisciplinare, e non esiste una ricerca dove utilizzi un tipo di conoscenza e non altre», conclude.

 

E se parliamo di rappresentanza femminile, quanto è frequente trovare ragazze nell’ambito dell’elettronica? 

Di ragazze ce ne sono poche, ma questo vale anche per tutti gli studenti in generale. Sulla presenza femminile c'è un circolo che da una parte è virtuoso e dall'altra vizioso, tale per cui vanno alla grande certi tipi di corsi, come succede per ingegneria biomedica, dove le ragazze iniziano a essere sempre di più e si crea una rappresentanza: più ragazze ci sono, più sono propense ad iscriversi, perché vedono persone in cui si sentono rappresentate. 

«Anche il modello che viene proposto ha un suo peso, secondo me: se a parlare di ingegneria elettronica sono sempre i colleghi uomini, è normale che si iscrivano uomini. Motivo per cui sto cercando di fare molta promozione dei corsi di laurea fra giovani studenti e studentesse; credo che il fatto di vedere che c’è una direttrice donna, per le poche ragazze che partecipano, sia un segnale importante», conclude Luisa. 

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